12 Maggio 1857 - 15 Aprile 1943
Avevo forse sei anni e percorrevo, solo, il marciapiedi di Via IV Novembre ad Orgiano diretto allo “stallo” di Menego Sansigolo, dov’era la mia bicicletta, ed ecco dalla direzione opposta venire verso di me un signore maturo, alto, distinto. Riconosco subito la figura inconfondibile del Dr. Caliari, con cappello, vestito impeccabile, scarpe nere lucidissime che "sgrenzano” leggermente ad ogni passo. Quando mi è vicino, lo saluto: “Buongiorno, dottore” — mi guarda amabilmente e sorridendo: “Buongiorno, caro’- risponde. Poi mi chiede chi sono, dice di conoscere bene la mia famiglia e mi congeda con una lieve carezza sui capelli. Dopo due passi mi giro e lo seguo con lo sguardo mentre si allontana e la brezza mi porta un leggero alito di profumo.
Non mi ero eclissato stavolta, come succedeva a casa quando arrivava il dottore e lasciava “in corte” la FIAT ARDITA nera che il fido chauffeur Antonio Padovan teneva lucida come uno specchio. Noi bambini di campagna coperti di-vestiti alla buona, abituati a giocare sulla terra, a saltare fossi, ad arrampicarci sugli alberi, non eravamo troppo presentabili: mani sporche, gambe e braccia qua e la sbucciate, vestiti con qualche strappo in più e bottone in meno, piedi dal colore indefinibile… Bastava un’occhiata delle donne (la mia era una famiglia patriarcale) per capire il tacito perentorio invito a sparire. Cosi seguivamo i movimenti del dottore appostati dietro ad un carro, una colonna, un fascio di pertiche per fare capolino al termine della visita, quando il dottore se ne andava e magari faceva, sorridendo, un cenno di saluto a quello che s’era fatto scorgere. Quell’approccio casuale con il Dr. Caliari mi lasciò dentro un senso di dolcezza e di gioia e in seguito era per me un piacere incrociarlo e rivolgergli il saluto per la gentilezza e la cordialità con cui immancabilmente lo ricambiava. Già prima peraltro mi ero fatto un alto concetto di lui che derivava forse da una inconscia simpatia ma soprattutto dall’atteggiamento di profondo rispetto e di piena fiducia nei suoi riguardi che notavo in famiglia e sentivo nei discorsi della gente. |
Cesare Caliari era nato ad Orgiano il 12 maggio 1857 da Luigi Caliari e Bianca Sessa. Figlio di un bravo medico vide probabilmente nella figura paterna un modello che lo indusse a scegliere la medesima professione. Compì gli studi superiori a Padova dove frequentò anche i corsi di medicina all’Università. Ottenuta la laurea cominciò ad esercitare la professione, badando a specializzarsi in un campo che gli era congeniale: la chirurgia. Non intraprese tuttavia la carriera di chirurgo ospedaliero anche se partecipava spesso ad operazioni come assistente di chirurghi affermati. Divenuto nel 1891 medico comunale di Orgiano, qui svolse per 47 anni la sua attività guadagnandosi stima e affetto generale per la competenza, la cortesia, la disponibilità. ll compito del medico non era facile a quei tempi, specialmente nei paesi rurali dove regnavano povertà e ignoranza (l’analfabetismo era ancora diffuso), mancavano i più elementari servizi (acqua, luce, impianti fognari…) le strade erano ghiaiose o sterrate, le case in larga parte malsane se non fatiscenti. Non esistevano casse mutue: i soldi erano scarsi, i raccolti non di rado falcidiati dalla grandine o dalla siccità. La malattia di un animale (a volte l’unico) metteva in ansia una famiglia e se, disgraziatamente, la vacca o il maiale o anche solo la capra (per i più miseri) moriva, era un dramma, significava privazioni e fame per lungo tempo. Nemmeno per i piccoli artigiani e commercianti la situazione era florida. Solo gli iscritti all’elenco dei poveri avevano diritto all’assistenza sanitaria comunale, ma erano i più meschini, pagati con salari bassissimi, costretti a settimane di opera gratuita per avere in cambio un po’ di fascine (di sarmenti) indispensabili a far fuoco o qualche prodotto scadente del suolo. Parecchi ragazzi di 12, 13, 14 anni venivano mandati a, fare i bovai in grosse fattorie della valle padana, centinaia di donne partivano ogni estate per le risaie del Piemonte dove le attendeva un ambiente insalubre, lo spossante lavoro della monda del riso. C’era chi soffriva realmente la fame. Il martedì e il venerdì della settimana decine e decine di poveri si presentavano alle porte delle case chiedendo: “Carità, per amor di Dio”. In una situazione di questo genere si capisce perché molti (anche intere famiglie) emigravano in Sud America e perché malattie come la difterite, la broncopolmonite, la gastroenterite, la tisi, il tifo mietevano tante vittime (la mortalità infantile si portava via il 40% dei nati). Il Dr. Caliari si trovava quindi a lavorare tra difficoltà non indifferenti e con i mezzi limitati che offriva allora la scienza medica. Ma qui si rivelò il carattere dell’uomo. Con indiscussa competenza ma ancor più con gentilezza, rispetto, misura, mise subito a loro agio i suoi pazienti, tutti, ricchi o poveri che fossero. Guidato da una profonda coscienza morale svolse il suo servizio con dedizione piena e con un calore umano che gli conquistarono la stima incondizionata della comunità e l’affetto (quasi una venerazione) dei meno fortunati. |
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Si racconta che...
Una notte d’inverno, mentre fuori turbinava la neve e sibilava il vento un uomo trafelato suonò alla casa di Cesare Caliari per avvertirlo che sui monti in una casa lontana e isolata c’era una partoriente in pericolo: la levatrice di fronte alle difficoltà del caso si dichiarava impotente e chiedeva il suo urgente intervento. La signora Anna, moglie di Cesare, preoccupata della violenza della bufera e dalle insidie della strada cercava di dissuaderlo. “Non insistere, Anna!” esclamò “devo andare, subito!” e partì con il suo cavallo in mezzo alla tormenta, su un percorso impervio e pericoloso. Ritornò dopo alcune ore, stremato, ma con la soddisfazione d'avere salvato mamma e bambino.
Cesare Porto, classe 1909, novant’anni splendidamente portati, sagrestano di Orgiano, ancora in servizio, dice di lui: “Era un medico esperto e scrupoloso e un uomo di grande affabilità. Si alzava presto al mattino in modo da essere pronto per le visite a donne che uscivano dalla chiesa dopo la prima messa. Partiva quindi con il cavallo ed il calesse (o con l‘auto negli anni trenta) a vedere i pazienti che non potevano muoversi di casa e tornava verso le 13 — 13:30. Nel pomeriggio era a disposizione di chi si presentava in ambulatorio. Ho sempre vivo il ricordo di come curò i miei fratelli Umberto e Guido e me stesso. Avevamo contratto il tifo, probabilmente per aver bevuto acqua inquinata, cosa che succedeva spesso allora. Le nostre condizioni erano molto serie, in particolare quelle di Umberto. Il tifo era una malattia terribile a quei tempi e spesso mortale, si presentava con febbre altissima, dolori addominali, dissenteria e incombeva il pericolo che la parete intestinale si perforasse e provocasse la peritonite, il decorso della malattia era lunge e incerto. Il Dr. Caliari ci curò con una pazienza ed una costanza ammirevoli. Veniva al capezzale ogni giorno e nei momenti critici anche due volte. Continuò così dall‘inizio ad agosto fino a San Martino (11 novembre) attento prima a combattere il male poi a rieducare l’intestino esausto e dalle pareti sottilissime, prescrivendo con meticolosa gradualità cibi delicati e nutrienti e controllando quotidianamente i progressi, finché non fu certo della guarigione. E sa alla fine, che cosa chiese a mio padre come compenso per cento e più giorni di lavoro? Cinque lire!”
“No, no!” esclama con bonaria irruenza il fratello Guido Porto (78 anni) quando rievoco l’episodio e chiedo qualche particolare anche a lui. “Cesare ha 9O anni e qualcosa gli sfugge. Il Dr. Caliari in quel periodo curò in casa nostra “cinque” fratelli colpiti dal tifo: i tre maschi citati più le due sorelle e devo precisare che lui non chiese compenso alcuno. Fu mio padre (modesto ciabattino) a dirgli alla fine delle visite: “E adesso come faccio a pagarla, dottore? Non ho soldi…” “Non si preoccupi, faccia pure con comodo e se le sarà possibile» Rispose il Dr. Caliari. Estrasse sorridendo il portafogli, prese cinque lire, gliele mise in mano e additando me: “Con queste procuri delle belle braciole a quel ragazzo che é alquanto pallido” - disse”.
Cesare Porto, classe 1909, novant’anni splendidamente portati, sagrestano di Orgiano, ancora in servizio, dice di lui: “Era un medico esperto e scrupoloso e un uomo di grande affabilità. Si alzava presto al mattino in modo da essere pronto per le visite a donne che uscivano dalla chiesa dopo la prima messa. Partiva quindi con il cavallo ed il calesse (o con l‘auto negli anni trenta) a vedere i pazienti che non potevano muoversi di casa e tornava verso le 13 — 13:30. Nel pomeriggio era a disposizione di chi si presentava in ambulatorio. Ho sempre vivo il ricordo di come curò i miei fratelli Umberto e Guido e me stesso. Avevamo contratto il tifo, probabilmente per aver bevuto acqua inquinata, cosa che succedeva spesso allora. Le nostre condizioni erano molto serie, in particolare quelle di Umberto. Il tifo era una malattia terribile a quei tempi e spesso mortale, si presentava con febbre altissima, dolori addominali, dissenteria e incombeva il pericolo che la parete intestinale si perforasse e provocasse la peritonite, il decorso della malattia era lunge e incerto. Il Dr. Caliari ci curò con una pazienza ed una costanza ammirevoli. Veniva al capezzale ogni giorno e nei momenti critici anche due volte. Continuò così dall‘inizio ad agosto fino a San Martino (11 novembre) attento prima a combattere il male poi a rieducare l’intestino esausto e dalle pareti sottilissime, prescrivendo con meticolosa gradualità cibi delicati e nutrienti e controllando quotidianamente i progressi, finché non fu certo della guarigione. E sa alla fine, che cosa chiese a mio padre come compenso per cento e più giorni di lavoro? Cinque lire!”
“No, no!” esclama con bonaria irruenza il fratello Guido Porto (78 anni) quando rievoco l’episodio e chiedo qualche particolare anche a lui. “Cesare ha 9O anni e qualcosa gli sfugge. Il Dr. Caliari in quel periodo curò in casa nostra “cinque” fratelli colpiti dal tifo: i tre maschi citati più le due sorelle e devo precisare che lui non chiese compenso alcuno. Fu mio padre (modesto ciabattino) a dirgli alla fine delle visite: “E adesso come faccio a pagarla, dottore? Non ho soldi…” “Non si preoccupi, faccia pure con comodo e se le sarà possibile» Rispose il Dr. Caliari. Estrasse sorridendo il portafogli, prese cinque lire, gliele mise in mano e additando me: “Con queste procuri delle belle braciole a quel ragazzo che é alquanto pallido” - disse”.
La lotta contro la malattia della Pellagra
Cesare Caliari agli inizi del secolo condusse una lunga lotta per sconfiggere una malattia che si manifestava in forme assai gravi: la pellagra.
Nel Vicentino fu istituita in Provincia ed in ogni Comune una “Commissione Pellagrologica” con il compito di attuare forme di assistenza ai malati. Ad Orgiano il Dr. Caliari, d’intesa con le autorità provinciali e locali, organizzò le “Locande Sanitarie Comunali” dove, secondo le sue istruzioni venivano preparali e serviti cibi sostanziosi ricostituenti. Ne fanno fede i numerosi provvedimenti del Comune di Orgiano del tempo.
Alla definitiva sconfitta della pellagra il De. Caliari partecipò con la consueta abnegazione offrendo per di più il contributo di una notevole competenza che gli derivava dal costante aggiornamento sui progressi della medicina e sulle nuove terapie.
Nel Vicentino fu istituita in Provincia ed in ogni Comune una “Commissione Pellagrologica” con il compito di attuare forme di assistenza ai malati. Ad Orgiano il Dr. Caliari, d’intesa con le autorità provinciali e locali, organizzò le “Locande Sanitarie Comunali” dove, secondo le sue istruzioni venivano preparali e serviti cibi sostanziosi ricostituenti. Ne fanno fede i numerosi provvedimenti del Comune di Orgiano del tempo.
Alla definitiva sconfitta della pellagra il De. Caliari partecipò con la consueta abnegazione offrendo per di più il contributo di una notevole competenza che gli derivava dal costante aggiornamento sui progressi della medicina e sulle nuove terapie.
Si racconta che...
La fama di professionista eccellente andava ben oltre i confini comunali. Il Dr. Caliari veniva spesso chiamato con altri valenti medici per un consulto, al capezzale di malati in pericolo di vita. Era nota la sua abilità di chirurgo sia in ambulatorio che in ospedale.
La nipote Maria Vittoria Dalla Banca Novelli, 80 anni (fine, gentilissima) ricorda: “Durante la guerra 1915-18 il nonno sostitutì egregiamente come chirurgo nell’ospedale di Noventa Vicentina il primario Dr. Enzo Porta (fraterno amico) chiamato alle armi. Di questo gli fu sempre grata la famiglia Porta, in particolare la moglie di Enzo alla quale la generosità del nonno assicurò un’indispensabile fonte di sostentamento in un momento difficile”.
Erano tante le persone dei paesi vicini che ricorrevano al Dr. Caliari. Giulia Delia Busato di Noventa Vicentina, ad esempio, racconta: “Avevo allora 14 anni e stavo male: presentavo residui di broncopolmonite con diminuzione dell‘apertura polmonare e sospetto inizio di pleurite. Su consiglio del Dr. Enzo Porta i miei si rivolsero al Dr. Caliari. Ho un bellissimo ricordo di lui, della sua grande dolcezza. Quando mi vide sofferente e impaurita, fu tenerissimo, mi sorrise dicendo: “Non aver paura, non voglio farti alcun male” e paternamente mi coccolò dandomi coraggio e fiducia. Mi prese in cura stabilendo: una terapia a base di medicine (sciroppi in particolare) preparate, come si usava allora, dal farmacista attenendosi alle dosi indicate nelle ricette. Ottenuta piano piano l’apertura polmonare, si preoccupò del mio livello di deperimento (pesavo 25/26 chili) e per farmi superare lo stato di anemia e di anoressia mi prescrisse una alimentazione varia e sostanziosa che prevedeva tra l’altro sangue di bue che mi procuravo al macello. Due mesi dopo, anche se magra ancora, ero tornata in salute. Alla fine della cura mio padre si apprestò a pagargli l’onorario di 10 lire, ma lui ne volle solo metà: "Con le altre 5, comperi delle buone bistecche per questa ragazzina” disse sorridendo”.
Da medico di talento possedeva anche prontezza e fantasia nell’affrontare le situazioni. Giovanni Chiericato di Orgiano, 79 anni (asciutto, attivo, garbato) conserva ancora in casa un vecchio tavolo rustico. “Su questo tavolo" dice la moglie Gina "il Dr. Caliari fece stendere la madre di Giovanni (Emilia Zanin) nei momenti drammatici della sua nascita quando, dopo un lungo inutile travaglio si rese necessario il ricorso al forcipe per portare alla luce un bimbo di quattro chili e mezzo, magrissimo ma assai sviluppato, che non trovava via d’uscita. Me l'ha raccontato più volle sua madre”
Racconta Benito Rezzadore, 74 anni, agricoltore: “era il 1936, avevo 10 anni. Uscendo di casa scalzo (era estate) misi il piede destro su qualcosa di cedevole (un Sacco, Forse, un panno) che nascondeva un pezzo di vecchio reticolato. Sentii una fitta dolorosa: una punta del reticolato era penetrata nel piede. Dalla ferita non uscì molto sangue e non feci gran caso all’infortunio, ma dopo qualche ora il piede cominciò a farmi male. Avvertii, via via che il tempo passava, un crescente stato di malessere generale. Come fu chiamato, il Dr. Caliari accorse, riconobbe i sintomi dell’infezione tetanica e praticò subito le cure necessarie, ma dal focolaio di infezione il male si era esteso ad altre parti dell’organismo.” (Le tossine del telano si dirigono nel tessuto nervoso che comanda i muscoli) - “Avevo febbre alfa, mal di testa, contratture muscolari, difficoltà di respirazione. Il medico mi fece sistemare in una stanza buia e lontana dai rumori perché luce e strepitii mi risultavano insopportabili. Veniva a visitarmi più volte al giorno, anche a tarda notte, ma le terapie non davano visibili risultati, le mie condizioni si fecero critiche, la gamba destra maggiormente invasa dall’infezione era in cattivo stato. Fu fatto un consulto al quale partecipò anche l’autorevole primario dell’ospedale di Montecchio Maggiore. Fu lui al termine della visita ad emettere una terribile sentenza: “Bisogna amputare la gamba!” ma alle sue parole il Dr. Caliari reagì con uno scatto d’ira: “Tanto vale ammazzarlo!” esclamò alzando la voce “L’amputazione non si fa!” — cosi l’arto mi fu risparmiato. La mia salvezza ora era nelle mani del Dr. Caliari che mi seguì con scrupolosa assiduità e con fiducia. Le sue cure, grazie a Dio, furono coronate da successo: nei giorni seguenti l’infezione cominciò a regredire, cominciai a sentirmi meglio, tentai i primi passi. Ricordo che il dottore con premurosa pazienza mi aiutava personalmente a camminare nel corridoio di casa, per controllare le risposte della gamba e per favorire il recupero della motilità di tutto il corpo: era felice e stupito dei progressi che giornalmente facevo sulla via della guarigione che alla fine risultò perfetta. Se mi ritrovo un fisico intatto e ho condotto una vita normale lo devo a lui!”.
La nipote Maria Vittoria Dalla Banca Novelli, 80 anni (fine, gentilissima) ricorda: “Durante la guerra 1915-18 il nonno sostitutì egregiamente come chirurgo nell’ospedale di Noventa Vicentina il primario Dr. Enzo Porta (fraterno amico) chiamato alle armi. Di questo gli fu sempre grata la famiglia Porta, in particolare la moglie di Enzo alla quale la generosità del nonno assicurò un’indispensabile fonte di sostentamento in un momento difficile”.
Erano tante le persone dei paesi vicini che ricorrevano al Dr. Caliari. Giulia Delia Busato di Noventa Vicentina, ad esempio, racconta: “Avevo allora 14 anni e stavo male: presentavo residui di broncopolmonite con diminuzione dell‘apertura polmonare e sospetto inizio di pleurite. Su consiglio del Dr. Enzo Porta i miei si rivolsero al Dr. Caliari. Ho un bellissimo ricordo di lui, della sua grande dolcezza. Quando mi vide sofferente e impaurita, fu tenerissimo, mi sorrise dicendo: “Non aver paura, non voglio farti alcun male” e paternamente mi coccolò dandomi coraggio e fiducia. Mi prese in cura stabilendo: una terapia a base di medicine (sciroppi in particolare) preparate, come si usava allora, dal farmacista attenendosi alle dosi indicate nelle ricette. Ottenuta piano piano l’apertura polmonare, si preoccupò del mio livello di deperimento (pesavo 25/26 chili) e per farmi superare lo stato di anemia e di anoressia mi prescrisse una alimentazione varia e sostanziosa che prevedeva tra l’altro sangue di bue che mi procuravo al macello. Due mesi dopo, anche se magra ancora, ero tornata in salute. Alla fine della cura mio padre si apprestò a pagargli l’onorario di 10 lire, ma lui ne volle solo metà: "Con le altre 5, comperi delle buone bistecche per questa ragazzina” disse sorridendo”.
Da medico di talento possedeva anche prontezza e fantasia nell’affrontare le situazioni. Giovanni Chiericato di Orgiano, 79 anni (asciutto, attivo, garbato) conserva ancora in casa un vecchio tavolo rustico. “Su questo tavolo" dice la moglie Gina "il Dr. Caliari fece stendere la madre di Giovanni (Emilia Zanin) nei momenti drammatici della sua nascita quando, dopo un lungo inutile travaglio si rese necessario il ricorso al forcipe per portare alla luce un bimbo di quattro chili e mezzo, magrissimo ma assai sviluppato, che non trovava via d’uscita. Me l'ha raccontato più volle sua madre”
Racconta Benito Rezzadore, 74 anni, agricoltore: “era il 1936, avevo 10 anni. Uscendo di casa scalzo (era estate) misi il piede destro su qualcosa di cedevole (un Sacco, Forse, un panno) che nascondeva un pezzo di vecchio reticolato. Sentii una fitta dolorosa: una punta del reticolato era penetrata nel piede. Dalla ferita non uscì molto sangue e non feci gran caso all’infortunio, ma dopo qualche ora il piede cominciò a farmi male. Avvertii, via via che il tempo passava, un crescente stato di malessere generale. Come fu chiamato, il Dr. Caliari accorse, riconobbe i sintomi dell’infezione tetanica e praticò subito le cure necessarie, ma dal focolaio di infezione il male si era esteso ad altre parti dell’organismo.” (Le tossine del telano si dirigono nel tessuto nervoso che comanda i muscoli) - “Avevo febbre alfa, mal di testa, contratture muscolari, difficoltà di respirazione. Il medico mi fece sistemare in una stanza buia e lontana dai rumori perché luce e strepitii mi risultavano insopportabili. Veniva a visitarmi più volte al giorno, anche a tarda notte, ma le terapie non davano visibili risultati, le mie condizioni si fecero critiche, la gamba destra maggiormente invasa dall’infezione era in cattivo stato. Fu fatto un consulto al quale partecipò anche l’autorevole primario dell’ospedale di Montecchio Maggiore. Fu lui al termine della visita ad emettere una terribile sentenza: “Bisogna amputare la gamba!” ma alle sue parole il Dr. Caliari reagì con uno scatto d’ira: “Tanto vale ammazzarlo!” esclamò alzando la voce “L’amputazione non si fa!” — cosi l’arto mi fu risparmiato. La mia salvezza ora era nelle mani del Dr. Caliari che mi seguì con scrupolosa assiduità e con fiducia. Le sue cure, grazie a Dio, furono coronate da successo: nei giorni seguenti l’infezione cominciò a regredire, cominciai a sentirmi meglio, tentai i primi passi. Ricordo che il dottore con premurosa pazienza mi aiutava personalmente a camminare nel corridoio di casa, per controllare le risposte della gamba e per favorire il recupero della motilità di tutto il corpo: era felice e stupito dei progressi che giornalmente facevo sulla via della guarigione che alla fine risultò perfetta. Se mi ritrovo un fisico intatto e ho condotto una vita normale lo devo a lui!”.
L’esperienza e l’intuito gli suggerivano situazioni tanto geniali quanto semplici. In proposito Regina Rezzadore —70 anni, cortesissima, racconta un episodio illuminante. Era l’agosto del 1937. Stradini e operai del comune stavano asfaltando un tratto di strada del centro. Il caldo era soffocante, il sole implacabile. Mio padre, stradino comunale, lavorava con la squadra a spalmare il catrame e a stendere il ghiaino. Ad un certo momento — forse l’afa, forse le esalazioni del catrame, forse un’insolazione — mio padre fu colto da una violenta e incontrollabile crisi nervosa e dovette essere accompagnato a casa. Le sue condizioni erano preoccupanti e decidemmo di chiamare il medico. In quel periodo il Dr. Caliari era già in pensione, la nomina del nuovo medico non era ancora avvenuta e a Orgiano prestava servizio il medico di Villaga. Ci rivolgemmo a lui. Arrivò in motocicletta, visitò mio padre e senza tanto riguardi disse che bisognava richiuderlo in manicomio. Figurarsi lo sconcerto e l’incredulità in famiglia! Su consiglio dello zio Pietro Grifan, si decise di consultare il Dr. Caliari. Fu molto gentile, venne subito, esamino attentamente mio padre, poi con aria serena chiese: “Avete un po’ di vino in casa?” — “Vado a prenderlo io” esclamò lo zio. Tornò poco dopo con un fiaschetto di bianco. Il Dr. Caliari ne porse un bicchiere a mio padre che ne bevve alcuni sorsi e, come per incanto, tornò calmo e lucido. "Tranquillo, Cassiano, non è niente " disse prima di andarsene. Era la sua espressione abituale quando leggeva l’angoscia sul volto dei pazienti e dei parenti e voleva sdrammatizzare la situazione. Era bastato un sorso di vino, un semplice gesto di vita abituale (a Cassiano piaceva bere qualche "goto") per riportare un uomo alla normalità e sottrarlo all’inferno del manicomio”.
Cesare Caliari, generoso e affabile, era però molto esigente in fatto di igiene, la sua scrupolosità era rigorosa (quasi maniacale per gli sciatti). Nelle case dove entrava per una visita voleva trovare un lavandino con catino, brocca d'acqua, sapone e asciugamani di bucato. Raccomandava molto la pulizia della persona e della casa, l’aria aperta, il sole e non mancava di sensibilizzare gli insegnanti affinché nelle scuole venissero spiegate le norme igieniche fondamentali.
Mi scrive in una recente lettera (3 marzo 1999) la nipote Maria Vittoria: "Ho apprezzato molto il pensiero di ricordare fra le persone benemerite del paese il mio nonno Cesare Caliari che ad Orgiano ha lasciato un esempio di vila, di missione. Ricordi di mio nonno come lei mi ha chiesto ne ho molti, lo ricordo con il suo cavallo quando veniva chiamato di notte per casi gravi raggiungere l’ammalato nei posti più impervi con qualsiasi tempo. Ricordo che ogni domenica dopo cena radunava degli amici medici: il Dr. Enzo Porta, il Dr. Mario Peserico, il Dr. Carlo Geraci, ecc.. Parlavano dei casi più gravi dei loro ammalati per avere un suo consiglio. Ricordo che teneva sempre in tasca delle caramelle per darle ai bambini che incontrava per la strada. Ricordo che era chiamato per consulti da illustri medici. L'ultimo mio ricordo è il giorno che ha lasciato questa terra: ero vicina al suo letto con mia madre (Margherita Caliari), aveva in mano un libro, studiava sempre... E’ spirato mentre suonava mezzogiorno.”
La devozione e la riconoscenza di Orgiano per Cesare Caliari sono espressi nell’iscrizione che sta sotto il busto marmoreo che si vede nell’atrio del Palazzo dei Vicari, sede del Comune.
Dal 1965 al Dr. Cesare Caliari è intitolata nel capoluogo la strada che collega Via 4 Novembre con Via Fontanelle intersecando la Provinciale Berico-Euganea.
Ricerca di Giancarlo Polato
30 marzo 1999
Mi scrive in una recente lettera (3 marzo 1999) la nipote Maria Vittoria: "Ho apprezzato molto il pensiero di ricordare fra le persone benemerite del paese il mio nonno Cesare Caliari che ad Orgiano ha lasciato un esempio di vila, di missione. Ricordi di mio nonno come lei mi ha chiesto ne ho molti, lo ricordo con il suo cavallo quando veniva chiamato di notte per casi gravi raggiungere l’ammalato nei posti più impervi con qualsiasi tempo. Ricordo che ogni domenica dopo cena radunava degli amici medici: il Dr. Enzo Porta, il Dr. Mario Peserico, il Dr. Carlo Geraci, ecc.. Parlavano dei casi più gravi dei loro ammalati per avere un suo consiglio. Ricordo che teneva sempre in tasca delle caramelle per darle ai bambini che incontrava per la strada. Ricordo che era chiamato per consulti da illustri medici. L'ultimo mio ricordo è il giorno che ha lasciato questa terra: ero vicina al suo letto con mia madre (Margherita Caliari), aveva in mano un libro, studiava sempre... E’ spirato mentre suonava mezzogiorno.”
La devozione e la riconoscenza di Orgiano per Cesare Caliari sono espressi nell’iscrizione che sta sotto il busto marmoreo che si vede nell’atrio del Palazzo dei Vicari, sede del Comune.
Dal 1965 al Dr. Cesare Caliari è intitolata nel capoluogo la strada che collega Via 4 Novembre con Via Fontanelle intersecando la Provinciale Berico-Euganea.
Ricerca di Giancarlo Polato
30 marzo 1999